OSSI DURI - La storia di Lucia

OSSI DURI – La storia di Lucia

Mi chiamo Lucia Valente.

Sono stata colpita da un tumore maligno e aggressivo a tre anni e mezzo.

I primi sintomi una sera di febbraio 2008 quando, mentre giocavo con mio padre, lui mi afferrò per una gamba per evitarmi una caduta.

Un gesto d’amore, un riflesso protettivo a partire da cui ebbero inizio i primi indolenzimenti e, a seguire, dolori sempre più forti che mi impedivano il contatto della pianta del piede con il pavimento.

Alla prima visita la pediatra ipotizzò un’osteomielite. L’ortopedico del mio paese, invece, dopo una prima radiografia, pensò ad un callo osseo, conseguenza di una frattura in via di guarigione.

Non tanto soddisfatti i miei genitori mi portarono da un altro pediatra nella città di Brindisi che, poco convinto delle diagnosi precedenti, consigliò di recarci presso l’ospedale pediatrico di Bari. E qui ritennero opportuno farci raggiungere l’Istituto Giannina Gaslini di Genova o l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna.

Ci dirigemmo al Rizzoli due giorni dopo, il 1 maggio, e, finalmente, ricevemmo la diagnosi corretta di osteosarcoma al perone destro, di grado avanzato.

Fui sottoposta a chemioterapia e il 14 agosto 2008, il dottore Marco Manfrini, con i suoi collaboratori, mi salvò la vita e la gamba. L’amputazione, che rappresentava una possibilità concreta, mi fu evitata. L’intervento consistette in una osteotomia parziale del perone associata alla recisione del nervo sciatico, che determinò inevitabilmente una paralisi dello sciatico popliteo esterno: il piede era destinato a divenire cadente, valgo, pronato e piatto.

E per camminare, avrei avuto bisogno da lì in avanti di un supporto costante: la molla di Codivilla, fedele compagna silenziosa della mia deambulazione.

Da allora, la mia crescita è sempre stata intrecciata con il Rizzoli. Un rituale continuo, fatto di viaggi dalla mia Puglia a Bologna, scanditi da esami, controlli, visite, speranze e timori.

Poi, nell’aprile del 2017, un nuovo scossone: una TAC polmonare evidenziò la presenza di alcuni noduli aumentati, sia nel numero che nelle dimensioni. Il sospetto era tremendo: metastasi. Avevo tredici anni e quella volta la consapevolezza per comprendere cosa poteva significare.

Temevo di perdere ancora una volta la libertà, la spensieratezza, i capelli.

Il 6 giugno 2017, mentre i miei compagni si esibivano nello spettacolo musicale di fine seconda media, io ero distesa su un lettino operatorio, fra le mani preziose del dottor Michele Rocca e della dottoressa Maria Cristina Salone. Furono giorni difficili, durissimi. Poi, gli esiti della biopsia: nessuna recidiva. Solo una nuova cicatrice sul petto, che si andava ad aggiungere a quella sulla gamba, ma anche un’altra prova di forza superata.

I controlli annuali sono proseguiti fino al 18 luglio 2022, giorno in cui si è ufficialmente concluso il mio follow-up.

A condurre quella visita ortopedica fu proprio il dottor Marco Manfrini, lo stesso uomo che, tanti anni prima, mi aveva salvato ma non potevo più accettare che la mia gamba restasse per sempre “imprigionata” nella molla di Codivilla.

Così, con il cuore in mano, lo chiesi al dottore. La risposta fu prudente, forse persino un po’ scoraggiante: la caviglia era troppo fragile; il muscolo, ormai, ipotonico però mi disse di tornare l’anno successivo con un’elettromiografia, per valutare meglio la situazione.

Incuriosita, mi informai. Ma presto la curiosità lasciò spazio a una paura paralizzante. La sola idea della procedura mi atterriva al punto da farmi desistere, ancora prima di cominciare.

Da quell’ultima volta al Rizzoli è passato del tempo. Un tempo che mi ha vista crescere ancora, maturare, cambiare, durante il quale ho compreso una verità che non potevo più ignorare: non poteva essere un esame, per quanto breve e fastidioso, a tenermi prigioniera di una condizione che ormai mi stava soffocando. Il mio piede, giorno dopo giorno, continuava a deformarsi. E quella molla di Codivilla, che un tempo percepivo quasi come un’estensione del mio corpo, si era trasformata in una costrizione dolorosa, non solo per la pelle che lacerava, ma soprattutto per la libertà che mi negava.

Tornata al Rizzoli incontrai il professore Cesare Faldini e, dopo la visita, le sue parole aprirono uno spiraglio di luce.

Mi parlò con empatia, con sincerità, con limpidezza, e mi prospettò un intervento di artrodesi della sottoastragalica, allo scopo di raddrizzare il piede e correggere le varie deformità, associato a una trasposizione del tendine tibiale per restituire al mio passo l’equilibrio perduto — e forse, anche la libertà dalla molla che da sempre mi accompagnava. Non mi ha illusa. Non mi ha promesso miracoli, consapevole della complessità della mia situazione. Ma ci ha creduto.

Lo scorso 28 agosto sono entrata in sala operatoria per la terza volta. Con il cuore pieno di coraggio e la consapevolezza di fare la cosa giusta. Che quel passo, per quanto difficile e un po’ incerto, avrebbe potuto aprire la porta di un futuro nel quale non avrei mai potuto rimproverarmi di non averci provato.

Perché se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato, è che non bisogna mai smettere di lottare per i propri desideri e per la propria serenità.

Oggi so che il mio sogno — quello di camminare libera, senza un tutore — potrebbe non diventare realtà. Ma ho capito che nella vita esistono sempre due strade: accettare le condizioni in cui viviamo o assumerci la responsabilità di cambiarle, anche quando fa paura.

Io, quella scelta l’ho fatta.

Mi sono presa la responsabilità di rischiare pur di non arrendermi. E qualunque sarà il risultato, so che domani potrò guardarmi allo specchio con fierezza, perché ho avuto il coraggio di sfidare il dolore e le paure, anche quando in alcuni momenti erano più forti della speranza e perché ci ho creduto sin dall’inizio che arriverà un giorno — forse non perfetto, ma mio — in cui ogni passo sarà più leggero, e ogni respiro saprà di libertà